In classifica

Votaci su Net-Parade.it

siti

siti

Photobucket

Photobucket

Photobucket

Photobucket

09 marzo 2010

IL TRENO

di Vito Maurogiovanni




Ho un’antica, antichissima passione per i mezzi di trasporto: cavalli, carrozze, treni, auto. E’ una passione infantile, proprio perché affonda le sue origini nei tempi - lontanissimi - della mia infanzia. Abitavo nel cuore della città, in via De Rossi. La mia casa era raggiunta dai fischi dei treni di ben due ferrovie: quelle dello Stato e quelle delle Calabro-Lucane, oggi Appulo-Lucane. I suoni delle locomotive dello Stato erano lunghi, stridenti: arrivavano a tarda sera, nel cuore della notte, all’alba, e anche durante il giorno. Le strade allora avevano solo la colonna sonora dei venditori ambulanti che, ad alta voce e spesso cantando, lodavano la merce in vendita e soprattutto la qualità e il basso costo. A queste voci, si mescolavano il trotto dei cavalli, il cigolio dei carri che trasportavano merci, e lo stridere delle alte ruote delle carrozze sui pavimenti fatti di pietra lavica delle nostre strade. Un sottofondo, dunque, che non soffocava i fischi dei treni lontani e permetteva anche l’ascolto dello sbuffare delle locomotive, i frastuoni delle ruote sui binari, il ritmo irregolare degli stantuffi, il calmo rimbombo quando il treno era ormai partito e procedeva veloce sui binari; e finanche i sibili meno acuti dei convogli e delle littorine delle Calabro-Lucane che viaggiano sul lungo rialzo costeggiante, per un lungo tratto, le Ferrovie statali e ora quelle della Bari nord. E poiché ero un ragazzo che passava lunghe ore della giornata fuori casa, correndo e giocando sul lungo marciapiede e per tutto l’isolato quadrangolare dove abitavo, fra i passanti e i negozi e l’andirivieni della strada, gli occhi andavano ai grandi sbuffi di bianco vapore che lì, alla fine di via De Rossi, incorniciavano di immense nuvole bianche nelle quali si trasformava il fumo – i treni viaggiavano a carbone - che si sprigionava dai corti i camini delle nere locomotive. Nuvole con un magico tocco di bianco quando il tempo era scuro e riuscivano a dare, ai rosei tramonti su quella parte finale del lungo stradone che è via De Rossi, anche evanescenti fasce chiare. Tutto quello spettacolo era ancora più bello per la sua motivazione di fondo: l’attrazione, legata alla verde età, di andare in giro…stando seduti. Quando i nonni, i fratelli grandi, i padri ci caricavano sulle spalle per una passeggiata, quando riuscivamo a entrare in un calesse che ci scarrozzava per la città e la campagna, quando prendevamo un semplice tram, quell’essere portati da qualcuno, e da qualcosa, dava un senso di felicità. Credo sia la prima bella impressione dell’infanzia: uscire dall’incertezza delle proprie gambe per andare verso il mondo - che è poi l’isolato della propria casa - quasi cavalcando su un mezzo alato che ci porti lontano dall’incertezza e dalla quotidianità. Il mezzo alato era, qualche volta, anche un semplice carretto trainato da un compagno. Il treno poi – con la sua possibilità di andare lontano, lontano, lontano- era il tappeto volante che portava verso lontani porti e lidi e città e magari cieli diversi. In quella mia via De Rossi c’era poi, accanto al fascino del paesaggio ferroviario, la presenza accattivante dei ferrovieri. Li incontravo nel caffè di mio padre, l’”Antico caffè”, fondato all’indomani dell’Unità d’Italia dal mio bisnonno, marinaio; e luogo d’incontro, fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, di ferrovieri e artigiani e commercianti; e piccoli impiegati e operai della Manifattura Tabacchi e della Ditta Larocca, stabilimento di pomodori e marmellate, e tipografi de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e guardie municipali e finanche le guardie forestali. La gente si sedeva ai tavolini. Leggeva - Dio, quei pochi che sapevano leggere, l’analfabetismo dominava sovrano; gli altri pregavano, i più fortunati, di dire quel che leggessero – la copia del giornale portata, fresca di stampa, dai tipografi. Ma l’argomento principe, in quel momento di sosta al caffè, era la fatica d’ogni giorno. Fiorivano discorsi a pezzi e a bocconi, per lamentarsi della quotidianità e dei soprusi sui posti di lavoro; ma anche delle tante cose legate all’impegno d’ogni giorno. La guardia forestale parlava delle volpi alle quali aveva sparato, e dei tempi della neve in cui era stato chiuso per intere giornate, nella baracca sulle Murge. E mangiava polenta e pane raffermo e il bricco del caffè bolliva, bolliva sempre. Si sentivano l’ululato dei lupi - ma c’erano i lupi sulle Murge? - e il fragore del maltempo. Poi veniva finalmente la calda estate, anche la notte dormiva sotto gli alberi. E il fucile era sempre pronto a sparare per le volpi e i cacciatori di frodo. E guardava insistentemente verso gli altri avventori, forse fra quelli ci doveva essere qualche antico bracconiere. Le operaie della Ditta Larocca, quella delle marmellate e dei pomodori, accennavano alla golosità dalla quale erano prese quando dovevano mettere, nelle scatole di latta, grosse e polpose pesche. “Ma come? C’erano pesche grosse e rosse e tenere. Quasi di velluto. Beh, le dovevamo mettere in scatola?“. E se le nascondevano nel reggiseno, per succhiarsele poi quando andavano al bagno. E ridevano, ridevano a crepapelle quando i compagni vedevano i loro seni diventati all’improvviso pieni, straripanti e colmi di odore che sapeva proprio di frutta fresca. I ferrovieri parlavano dei loro viaggi: ecco il fuochista che si lamentava di mettere, per ore e ore, palate e palate di carbone nella bocca del focolare per avere sempre sotto pressione la caldaia a vapore. Veniva, nel caffè, lindo e pulito ma a guardarlo bene c’erano sul viso ancora segni neri, le tracce di carbone che il sapone marsigliese, pur usato in abbondanza con tutta la sua schiuma, non riusciva a detergere. E il macchinista, quello che guidava la possente locomotiva, raccontava che sotto il cavalcavia riusciva a frenare la velocità del treno e a scaricare quando più vapore potesse: per fasciare…, in quel che si riteneva un salutare toccasana, i ragazzi ammalati di pertosse. Sostavano a lungo sul ponte ferroviario, per respirare quel fumo che li avrebbe guariti. Erano tutti avvolti in scialli e sciarpe e mantelli, i genitori e i nonni accanto; e il macchinista sprigionava più vapore che potesse per aggomitolarli in quella nebbia acquosa e salvifica. Il fuochista diceva, di quel suo collega più elevato di grado e del quale pure aveva invidia per la sua categoria, diceva che era un brav’uomo; ma anche con un culo grosso così. I treni da lui guidati arrivavano sempre in orario; no, non era fortuna, non era nemmeno l’organizzazione ferroviaria del tempo che facesse arrivare i convogli all’ora giusta. Lui aveva inventato un marchingegno, un aggeggio che aveva fatto lui stesso. I ferrovieri, diceva, sono bravi. “Noi prima di entrare in ferrovia - diceva - dobbiamo fare il “capolavoro”. Il capolavoro era una “prova”, oggi la prova si chiama test, che doveva dimostrare l’abilità e la prontezza manuale e finanche l’ingegno dell’aspirante. Il macchinista così aveva preparato chissà quale congerie: la inseriva al momento opportuno e la locomotiva acquistava quella velocità necessaria a farle superare i ritardi. Era in gamba, quel macchinista-inventore. Molti colleghi lo tenevano d’occhio, anzi erano andati a spiare sulle sue locomotive. Non avevano però mai scoperto cosa fosse quella invenzione che lo faceva arrivare sempre in orario. C’era anche il lampista, che raccontava barzellette sui colori delle sue lampade e si vantava anche di aver salvato, con gli accorti e immediati lampi delle sue lanterne, chissà quanti immani disastri ferroviari. Metteva un po’ di fantasia, si capisce, nell’effetto delle sue multicolori lampade. C’erano anche i calderai, che erano un po’ tutti sordi a forza di lavorare nelle caldaie per ripararle e renderle adatte al loro lavoro. Descrivevano la difficoltà del lavoro, le lunghe ore nelle quali erano calati proprio dentro le caldaie e si accorgevano, dal martellare sulle pareti, dov’erano i difetti e le rotture. Naturalmente erano subito presi in giro: ma come? siete duri di orecchio e poi, da un rumore flebile come un fiato, indovinavate subito il guasto? Che razza di sordi siete ,allora? E i poveracci a giustificarsi di esser diventati tali a forza di martellare per anni e anni, di essere chiusi, per ore ed ore, in quelle soffocanti caldaie da riparare. C’erano gli operai del sollevamento vetture, che lavoravano sotto i vagoni percorrendo lunghe ed umide trincee: e raccontavano di guasti microscopici che nessuno riusciva a riparare, ma che loro, con occhio esperto, riuscivano a individuare in qualche bullone, in qualche dado lì, nessuno mai avrebbe pensato che fosse proprio lì, in una minuscola cosa, la causa di un misterioso guasto e di un curioso rumore durante la corsa delle vetture. I racconti erano anche sospesi fra l’elogio del compagno ritenuto caro e la pesante ironia per coloro che non ritenevano amici. E parlavano dello scambiarsi delle colazioni ma anche dell’arte di far scomparire le più succulente e consumarle poi in barba a chi l’aveva gelosamente portata e nascosta nel suo armadietto. Racconti di brava gente e risate e risate a non finire quando vedevano i militi della polizia ferroviaria – in quel tempo organizzata in seno alla Milizia Volontaria per la Sicurezza nazionale, cioè un’istituzione politica del regime - che vigilavano sui binari scattare rigidamente sull’attenti e presentare le armi al passaggio del treno. Anche perché quell’impettito saluto era accolto dalle pernacchie e dalla sghignazzate dei viaggiatori salutati con quella marziale esibizione di armi. E raccontavano di donne fascinose che viaggiavano nei treni nella notte, di misteriose viaggiatori - spie? o giocatori di azzardo? – che occupavano i wagons-lit o le carrozze restaurant, di bambini trovati soli per viaggi lontani, lontanissimi. Il fascino del treno trovava così, anche in quei racconti che all’alba, o in pieno giorno e anche nelle tarde serate del caffè, quegli uomini che facevano viaggiare i convogli ferroviari narravano alla gente che poco sapeva delle cose del mondo. Ma arrivò anche il tempo in cui incominciammo ad andare per treni. Fu quando mio fratello partì soldato e andammo tutti alla Stazione Centrale da dove partivano i treni che andavano lontano. Mio fratello doveva raggiungere La Spezia, era marinaio di leva. Tutta la famiglia lo accompagnò alla stazione che allora era coperta da una grossa tettoia: e tutto, lì sotto, sembrava scuro, i rumori erano assordanti, il fumo soffocante; e tutto si rivestiva di nero,anche il bianco fumo delle vaporiere. Il convoglio era stracolmo di ragazzi, tutti i parenti speravamo che la partenza fosse ritardata, così potevamo vedere ancora mio fratello al finestrino, il naso arricciato per non far apparire le lacrime. Poi apparve un imponente capostazione, aveva una lunga giacca a coda, come quella dei tait; un berrettone rosso pieno di greche dorate. Arrivò lentamente, guardò la gente, poi estrasse dalle profonde tasche del suo tait una tromba: e vi soffiò dentro gonfiando le gote. Un suono argentino giunse sotto la grossa tettoia, la locomotiva fischiò, il treno si mosse; e un agitare di fazzoletti e lacrime, ma dov’era La Spezia? Sì, ci doveva essere il mare, quale mare? Sì, i nostri fratelli andavano lì per fare i marinai. C’era dunque il mare a La Spezia, allora, come a Bari. Avevo cinque anni, parlavo il dialetto, non andavo a scuola e non conoscevo le città. Ma era incominciato il tempo anche per i nostri viaggi partendo da quella che veniva indicata come la Stazione Centrale. Non era lontana da via De Rossi: ce ne accorgemmo quel giorno della partenza di mio fratello e potemmo vedere che sorgeva in una grande piazza. Questa imponenza confermava che di lì si partiva per i viaggi importanti: ecco così quello di mio fratello che di lì era partito per andare a fare il militare. Mio padre poi raccontava che, quand’era ragazzo, aveva visto passare dalla Stazione la “valigia delle Indie”. Ma cos’era la “valigia delle Indie”? Era un convoglio ferroviario che unì, ininterrottamente, Londra a Brindisi, dal 1870 al 1914. Attraversava i principali Paesi europei, e in questo itinerario passava quindi anche da Bari, portando inglesi e indiani; e merci e documenti e carichi di sterline e di stoffe; e viaggiavano finanche spie e belle dame e compassati gentleman dell’impero britannico. Tutto il “rapporto” insomma tra l’India e la Gran Bretagna era affidato a quella “valigia”, un convoglio famoso e misterioso, evanescente e blindato: due sleeping-car,due furgoni con le sentinelle sui terrazzini. Da Londra, il tragitto toccava Ostenda, Basilea e Bologna. Il convoglio era atteso a Brindisi da un ultrarapido steamer che proseguiva, a tutto vapore, per le Indie attraverso il Canale di Suez. Il viaggio durava dodici giorni e tutte le vetture portavano, vistose, e dorate, le lettere V.R., Victoria Regina: ai finestrini apparivano ufficiali alti, in brillanti e attillate uniformi. Dalla “valigia delle Indie” sbarcò a Brindisi Gandhi portando una capra al guinzaglio. Era il suo rifornimento di latte. Dopo 44 anni di servizio, nel 1914, quando scoppiò la Grande Guerra, anche la “ valigia delle Indie” smise di attraversare l’Europa in fiamme. E mio padre, quel treno, l’aveva visto transitare dalla imponente Stazione di Bari Centrale.


La Stazione e le Ferrovie secondarie

Piazza grande era, in quel tempo, piazza Roma ed era il luogo dove sorgeva la Stazione Centrale che, dopo il 1863, era diventato un importante punto di raccordo sulla linea Adriatica tra il Nord e il Sud. Il giorno dell’inaugurazione, da Ancona prese il treno la sorella di Giacomo Leopardi e, nelle sue lettere, scrisse dell’affascinante viaggio che dalle Marche la portò, a grande velocità, a Brindisi, dove tra l’altro in quel tempo imperversava il colera. La piazza non aveva la sua monumentale fontana: al suo posto una grande, variopinta aiuola con la data del giorno, l’anno, soprattutto l’era fascista a numeri romani, il tutto ricavato dalla sapiente disposizione di piante, piantine, fiori e fiorellini. Il che era il grande vanto degli esperti giardinieri comunali. La monumentale fontana dell’Acquedotto Pugliese era di là da venire. Attorno a quell’aiuola girava un tram lento che, percorrendo l’intera via Sparano - in quel tempo via Vittorio Veneto, in omaggio alla vittoria della Grande guerra - raggiungeva il porto che non era recintato da ringhiere e cancellate; e, aperto ai cittadini, consentiva che tutti potessero ammirare le navi e i vascelli, le unità da guerra e finanche un bastimento a vela, l’Eridano, la nave scuola di coloro che volessero diventare marinai della Regia Marina. Nella piazza c’erano le carrozze, i carrettini per trasportare le valigie e tanti vastasi, cioè i facchini del tempo. La parte più spettacolare era indubbiamente la grande stazione con le sue finestre, le tante porte, i saloni, finanche la bella sala d’aspetto con grandi specchi e tende e velluti per ricevere le autorità che venivano da Roma. Il Re, la Regina, il Principe, la Principessa di Casa Savoia arrivarono in quella sala; Mussolini invece quando venne a Bari nel 1934 sbarcò da una nave da guerra, in quel porto ancora senza recinzioni e sul quale arrivava anche un treno, collegato con la Stazione Centrale. In quest’ultima arrivavano anche i binari delle Ferrovie del Sud-Est con i treni che andavano a Triggiano, a Capurso, a Castellana, a Noci, a Martina; e anche a Lecce, a Taranto, alla lontana Gallipoli. E, accanto alla Stazione Centrale, c’era anche il piano rialzato sul quale viaggia quella che ancora viene chiamata la Bari-Matera, una volta era la Ferrovia Calabro-Lucana, oggi l’Appulo-Lucana. Non c’erano ancora la stazione e i binari di quella che sarebbe stata la Bari Nord, in quel tempo ancora – su via Napoli - e nota come la ferrovia Bari-Barletta. Nelle prime ore del mattino arrivavano, vomitati dai varii convogli, gli studenti che frequentavano le scuole baresi. Portavano nelle cartelle grosse fette di pane contadino che ingolosivano noi ragazzi di città, anche perché c’erano ormai nell’aria i razionamenti per via dei venti di guerra delle guerre vicine. Agli studenti, si accompagnavano i parenti che facevano compagnia ai loro cari diretti all’ospedale di piazza Umberto (università e cliniche mediche convivevano, a contatto di gomito, nell’ottocentesco edificio), gli impiegati e gli operai che avevano il loro posto di lavoro nel capoluogo, i commercianti e gli artigiani che venivano a fare le loro spese agli empori; e venivano venditori di scamorze e contadini con qualche primizia. Molti di costoro avevano, a Bari, il “ compare”. L’antico legame stretto con il “comparizio” era anche un’occasione per nuovi rapporti tra città e campagna, sostanziandosi in una casa cittadina dove si poteva parlare, con un nuovo amico, dei propri affari, si facevano riposare moglie e figli stanchi del viaggio, si avevano notizie sul grossista sicuro da avvicinare, si chiedeva consiglio per un buon dottore per gli acciacchi della moglie e dei vecchi nonni e anche per qualche piccolo disturbo dei giovani figli. Scattava poi, con lunghe strette di mano, l’invito alla prossima festa del patrono con l’avvertenza che “non ci farete mica il tradimento, quest’anno”. Il quale tradimento stava per la mancata permanenza, durante le grandi sagre, nel paese dei “compari”. Anche il “compare” cittadino aveva a cuore il “comparizio” paesano: fuori Bari, si sa, l’aria di campagna è più fine, la frutta saporita, caspita il vino! E le mogli, e le figlie del “compare”? Bellissime, e bellissime le feste del Patrono, con le bande, i fuochi pirotecnici - gli “ spari” - e la carne sui fornelli all’aperto fra infilzate di salsicce, fegati arrostiti, rognoni, i classici pranzi omerici. Importante il “comparizio”, dunque: nei paesi era fatto addirittura oggetto di scherno chi non fosse stato capace di farsi il “compare” in città. La voce popolare recitava all’incirca così: ”Tu, tu non sei capace di fare niente. Manco il “compare” in città, ti sei fatto”. E in questo ancestrale, e pur nuovo rapporto di amicizia, le ferrovie secondarie, con lo stabilirsi e l’incremento dei rapporti amicali, aumentavano il numero dei loro viaggiatori. Era cominciato così per noi il tempo dei piccoli viaggi provinciali. I treni non erano più nei nostri sogni: incominciavano a diventare anche realtà. Una delle prime mete dei nostri viaggi fu la fascia del Sud-Est servita appunto dalle Ferrovie Sud-Est. Il fascio dei binari di questa tratta era nella Stazione stessa; ma mio padre non voleva mai partire dalla Stazione Centrale. No, non per il ricordo struggente del fratello grande che era partito al militare, lasciando tutto e tutti e soprattutto un grande vuoto nella famiglia, dalla grande Stazione Centrale dello Stato che incarnava così il luogo dei tristi addii. C’era un’altra ragione per non partire di lì. Mio padre diceva, per non far scoprire le sue carte: “Ma perché dobbiamo partire di lì? Che bisogno c’è? Noi, tutto sommato, dai “compari” al paese andiamo. Facciamo una gitarella. Tanto vale fare una più lunga passeggiata, raggiungiamo Bari-Garage e partiamo di lì”. In realtà Bari-Garage era la vera stazione dei treni della Sud-Est: di lì partivano i convogli. La Stazione centrale era solo una comodità per far trovare i viaggiatori nel cuore della città. Ma alla Centrale c’era tanta gente. E papà non voleva che, fra tutta quella gente, ci fossero quelli che ci conoscevano. Erano tempi in cui si aveva cura di non far vedere troppo i propri fatti al vicinato, al prossimo insomma che ci conosceva: la gente vede, giudica, fa i conti in tasca, fa commenti malevoli e poi l’invidia, eh, l’invidia corre… Era la filosofia spicciola dei ceti medi di una volta. Anche quando, negli Anni trenta, comprammo una radio a basso costo, la radio dell’Agricoltore, papà imponeva che non si alzasse troppo il volume dell’apparecchio. I vicini avrebbero ascoltato e saputo che c’eravamo comprato anche la radio. Quando andavamo dunque dai “compari” era meglio non “far vedere” che eravamo in viaggio. Mia madre si arrabbiava, a quelle parole. Ma mio padre, duro: “Sì, sì, tu hai ragione! Che ci possono fare? Niente, possono fare. Però, meglio non far vedere. Meglio non far sapere”. E così, quando si partiva dalle Sud-Est , si attraversava il passaggio a livello di via Mola, con i binari dello Stato che portano a Lecce; e poi c’era la deviazione che porta i binari delle Sud-est alla Centrale. A quell’incrocio, un albero grande, frondoso, faceva larga ombra sul tratto assolato di vecchio viottolo campestre attraversata dalla strada ferrata; e, già a quella vista, papà sentiva un’altra aria, più fine. Una volta - era il 1934 - le Ferrovie del Sud-Est organizzarono un treno popolare. Destinazione: Taranto. I treni popolari erano allora di moda: il fascismo sapeva che la gente aveva pochi quattrini e molta voglia di divertirsi, anche se il Paese voleva esibire un volto maestoso e austero. Si organizzavano allora viaggi a prezzi ridotti per comitive allegre, o quasi, armate di fisarmoniche, pagnotte con un filo di mortadella dentro, tegami di pasta al forno, bottiglie di vino, e voglia di cantare e – chissà - anche di amare; e di cavalcare, con il viaggio popolare, anche sulle ali della fantasia nel sogno di andar lontano, lontano, tanto lontano. Ma la fermata di quel treno era a Taranto. Per quel viaggio si prenotò anche mia madre: aveva saputo che mio fratello grande, il marinaio che un giorno era partito con le ferrovie statali per la misteriosa La Spezia, era stato trasferito nella piazzaforte marittima pugliese. C’erano sempre venti di guerra per l’aria – nel ventennio i venti di guerra soffiarono senza posa - e si mormorava che la flotta italiana fosse lì lì per occupare il canale di Suez. L’occasione era buona, dunque, per raggiungere la città dei due mari e abbracciare mio fratello. Partimmo con un treno che straripava di gente, di pacchi, di sudore, di vino, di chitarre, di belle ragazze. Il viaggio era lungo, vedemmo per la prima volta i trulli, la Valle d’Itria piena di casette e di gente. Nei pressi di un grande vigneto – era un caldo settembre - il convoglio all’improvviso si fermò; e tutti i gitanti si precipitarono giù dal treno, sotto i pergolati, l’uva bionda faceva capolino - a grossi grappoli - fra le verdi foglie. Chissà, il proprietario di quel vigneto che costeggiava la strada ferrata delle Ferrovie Sud-Est per Taranto, sta ancora piangendo il danno provocatogli ai gitanti di un treno popolare di un lontanissimo giorno.

La Bari-Matera


Avemmo poi l’occasione di servirci della Bari- Matera che viaggia ancora oggi su quell’alto terrapieno, costeggiante sempre dall’alto i binari della Bari-Nord. E’ un lungo tratto nel cuore di Bari e gli dà un tono urbanistico diverso, fra vecchie e nuove case, passa davanti all’austero palazzo che una volta era l’autorevole sede del Compartimento delle Ferrovie dello Stato e finanche dal convento delle Carmelitane scalze di via De Rossi che osservano una stretta clausura. Un tempo il trenino partiva piano piano e le monache, quand’erano in terrazza a stendere i panni o a prendere un po’ di sole, si davano a precipitosa fuga per non farsi scorgere dai viaggiatori. Anche il Capo Compartimento delle Ferrovie dello Stato - aveva il suo grande ufficio un po’ più alto del terrapieno delle Calabro-Lucane, in un salone con un immenso candelabro – vedeva passare quei vecchi vagoni cigolanti che avevano - alle due estremità - due piccole piattaforme, i belvedere, dalle quali era bello vedere la città che si srotolava sotto il terrapieno; e poi correvano, sul binario a scartamento ridotto, fra valli e piccole salite e spesso fermandosi quando la salita murgiosa era troppo ripida. Impiegava allora quasi cinque ore per arrivare a Matera, e le stazioni toccate erano Bari-Scalo, Modugno, Bitetto, Palo del Colle, Binetto, Toritto, Altamura, le stazioncine di Pescariello e di Venusio. La Bari–Matera era il nostro collegamento con i “compari” di Toritto. Il capo-famiglia - con molte figlie, bionde e belle come le spighe del grano - lo chiamavamo ‘mba Peppiniello. La sua casa era vicino alla stazione, dietro aveva la cocevole, il piccolo orto, con i gelsi e i ciliegi; e le umili piante di fagioli, piselli, pomodoro, basilico, insalata, e tante belle margherite dalle corolle gialle e i petali bianchi. Noi andavamo nel mese di maggio quando le rosse ciliegie – a migliaia- spuntavano fra le verdi foglie. Le belle figlie del compare salivano, per coglierle dagli alberi, su lunghe e strette scale; e noi, i ragazzi, tutti sotto: a tener ben fermi quei fragili pioli di legno, levando spesso lo sguardo in su; e tenendolo a lungo verso l’alto. No, solo per il timore che le belle levate verso il cielo non avessero all’improvviso a scivolare verso la terra. Naturalmente grandi pranzi – da Bari, sempre in treno, portavamo ceste con pesce fresco, frutti di mare e gelati, tutti immersi in montagnette di ghiaccio – e, sotto il vecchio gelso, tavole imbandite con agnello al forno, grandi teglie di maccheroni, vino rosso così denso che si poteva tagliare con un coltello; e la brace piena di fuoco a portata di mano per arrostire cosciotti di agnelli e polli e tacchini e selvaggina. Pranzo insomma degno di una cantata omerica. E dalla stazione veniva il fischio del treno che, con le sue vecchie e nere vetture, saliva verso le Murge. A tavola sedeva con noi anche il fratello di ‘mba Peppiniello, il quale era un prete e aveva diritto al titolo di “compare” ('mba) e al rispettoso “don” in qualità di sacerdote. Si chiamava Onofrio e così veniva appellato ‘mba don Onofriuccio. Il buon ‘mba don Onofriuccio veniva spesso nella nostra casa di via De Rossi perché visitava, con molta frequenza, un professore suo compaesano, sposato a una brava donna sempre vestita di nero e che gli aveva dato tante figlie bionde. Mammà ci raccontò la storia del compare-acerdote e del suo amico professore: erano tutt’e due preti, e tutt’e due avevano fatto la Grande guerra in trincea, da semplici fanti, non da cappellani militari. Era avvenuto però che l’amico professore aveva conosciuto, al fronte, una infermiera - la donna sempre vestita di nero - e s’era “spogliato” da prete, contraendo giuste nozze solo quando gli era stata tolta la scomunica. I due erano rimasti molti amici, anzi andavano insieme a teatro, al Petruzzelli, a vedere le opere liriche, con l’appoggio delle Calabro-Lucane che avevano, fino a Toritto, un’ultima corsa a fine rappresentazione. La cosa scandalizzava mia madre: “Tornare a quell’ora, al paese. E poi tutt’e due, il prete e lo spretato, a teatro. Va bene per il professore, non è più prete, s’è “spogliato”. Ma lui, ‘mba don Onofriuccio, lui, no: ha ancora la santa sottana”. Il prete di Toritto a tavola era un felice conversatore, una buona forchetta e sedeva sempre con la lunga sottana bell’e abbottonata. “A caccia no, è un’altra cosa”, – diceva mio padre. “A caccia viene in camicia, pantaloni e giacca da cacciatore. Solo in testa porta il nero ed elegante cappello di velluto nero. Da prete”. All’improvviso però se ne morì: e da Bari partimmo in massa, il professore ex prete, la moglie, le figlie, i compari, gli amici che il prete s’era fatto in città, finanche alcune maschere del Teatro Petruzzelli. La Bari-Matera si riempì, in quel giorno triste, di mesti baresi in pellegrinaggio al prete morto nel paese delle Murge. I funerali furono solenni, al sacerdote misero i paramenti più solenni, il calice e il Vangelo stretti nelle mani, la banda a suonare tristi musiche, forse le stesse sinfonie che i due amici - uno prete, l’altro spretato - andavano a sentire al Petruzzelli. Su un cuscino furono messe le medaglie conquistate al fronte, il professore - senza medaglie - seguiva addolorato il corteo. Il ritorno in città fu meno triste: amici, compari e maschere del Petruzzelli, dopo aver pianto il caro estinto, se ne tornarono con alcuni fiaschi di vino; e una strana allegria in corpo. Bevevano e cantavano, romanze di opere si capisce. I ferrovieri, e i viaggiatori che salivano alle varie stazioni intermedie, guardavano curiosi quei viaggiatori che avevano trasformato il convoglio in una specie di Carro di Tespi. Anche mia madre trovò da ridire: caspita, il morto era ancora sulla terra e gli amici cantavano. In un treno. La soluzione la dette un vecchio sarto barese che cuciva le eleganti veste del prete defunto: ”Sapete, signora, non c’è niente di male. Cantiamo le romanze delle opere che a lui piacevano”. Poi venne la guerra: la Bari-Matera era presa d’assalto dalla gente che, a sera, sfollava nei paesi delle Murge per sottrarsi ai pericoli dei bombardamenti sulla città. E da coloro che, soprattutto da Matera ed Altamura, portavano farina e pane bianco, generi ormai spariti quasi dalla circolazione per via dei razionamenti. Erano però in agguato agenti in borghese che facevano aprire le valigie e, senza pietà, sequestravano grano, farina, pane, salami, legumi secchi, qualche pezzo di lardo. Roba da mercato nero, ma avevamo dubbi che quei preziosi carichi finissero, il più delle volte, nelle case delle guardie. Erano a digiuno anche loro. Anch’io, qualche volta, portai roba dal capoluogo lucano. Me la forniva mia sorella, mio cognato lavorava in un grande molino. I miei parenti mi consigliarono di non scendere alla Stazione Principale della Bari-Matera, meglio scendere alla stazione prima, quella di Bari-Scalo. Gli agenti, che erano appiedati, non ce la facevano ad arrivare fin laggiù. Meglio scendere lì, allora. Solo, che per tornare a casa, con tutto quel peso, la strada diventava più lunga e faticosa. E poi, quella stazioncina era scura, sporca, quasi abbandonata, un posto quasi sperduto pur a un tiro di schioppo da Bari. E soprattutto non c’erano il bel palazzo del Compartimento delle Ferrovie dello Stato, con il Capo Compartimento nell’ufficio elegante e le suore di clausura che scappavano dalla terrazza quando vedevano passare i treni della Bari-Matera.

In attesa di partire…

Dovemmo poi abbandonare via De Rossi. Il caffè di mio padre fu chiuso, la crisi dilagava, c’erano sempre in giro venti di guerra. Era stata ventilata una proposta di emigrare nella lontana Milano, e i miei avevano venduto tutto, e s’erano preparati per quella partenza. In attesa di prendere, tutti assieme appassionatamente, il treno delle Ferrovie dello Stato per il Nord, affittammo - attendevamo che fosse pronta la casa che dovevamo abitare nella grande Milano - un alloggio in periferia. Una casa provvisoria, quasi d’emergenza dove attendere il giorno della grande partenza. Quel provvisorio appoggio fu trovato in via Giovanni Jatta, proprio di fronte a quello che era stato il campo d’aviazione della Prima guerra mondiale. Era un terreno immenso, crescevano erbe e rovi, pascolavano pecore e c’erano anche cavalli guardati a vista da qualche ragazzo. Oggi quel luogo è Corso Mazzini, pieno di palazzi e di scuole; ma tanti anni fa, abbandonato come campo d’atterraggio dei primi, rudimentali velivoli, era l’immensa prateria dei ragazzi. C’era, dalla sua parte estrema verso la città, anche un costruzione in legno dove, al tramonto, avevano inizio rappresentazioni di marionette con storie di Orlandi e Rinaldi che s’affrontavano, ora in singolar tenzone ora in battaglie collettive sempre più cruente con continuo cader di teste – poi subito rimontate - di guerrieri armati di scudi e lance e sciabole e scimitarre. Da quelle parti – sino agli anni Quaranta - arrivavano, e partivano, anche gli omnibus, cioè le carrozze, autentiche piccole diligenze, per le vicine località baresi. In città c’era da sottoporsi a una visita medica, acquistare un abito da sposa, fare una visita ai “compari” portando magari un cesto di fioroni, comprare una “cosa buona“ nella città? Ecco allora l’omnibus. Partiva alle prime ore del mattino dalla località vicina: la gente tutta stipata nel ridotto spazio della carrozza con ampie finestre coperta da tendine. La ragazza prendeva posto accanto al grasso prete, la donnetta sofferente era tutta appoggiata alla spalla del marito, il cantiniere di Bitonto era tutto soddisfatto per la sua gita in città. Il cavallo se n’andava solenne per le vie nuove, com’erano allora chiamate le polverose strade appena lastricate. Quando il viaggio andava per le lunghe, il cantiniere bitontino metteva fuori vino e pane (ed aveva anche il coltello per affettarlo), il paesano che portava fioroni ai “compari“ baresi si decideva ad offrirne qualcuno. La donna sofferente, e la ragazza educata, si scusavano, no, non potevano proprio accettare. A casa avevano detto loro di non dare confidenza a nessuno, durante il viaggio. Il grasso prete accettava volentieri, il vino lo beveva direttamente dal collo della bottiglia e intanto si asciugava il copioso sudore con un grande fazzoletto rosso. Già, perché in quel tempo la gente portava sempre con sé grandi fazzoletti rossi, o blu a pois: servivano per tergere l’accaldata fronte, ma si serravano anche attorno al collo se si fosse levato il maestrale. Si asciugavano anche le lacrime del monellaccio che, durante il viaggio, aveva dato fastidio a tutti i viaggiatori sebbene fosse stato mazziato con tutti i riguardi del caso. Quei capaci fazzoletti poi servivano egregiamente quando, arrivati a destinazione e trovato un pesce appena pescato a buon prezzo, lo si raccoglieva in quel benedetto fazzoletto. Il quale pesce poi, nel racconto che l’acquirente faceva in famiglia al ritorno, era stato pagato poco, pochissimo, proprio niente. Il paesano che veniva a Bari doveva dimostrare di aver fatto un acquisto conveniente, anche se il pescivendolo - fiutata la facile preda – se l’era fatto pagare quattro o cinque volte in più del suo reale prezzo. Arrivato in città l’omnibus sostava nei pressi dell’ex campo di aviazione, mentre i viaggiatori sciamavano per le strade nella civiltà delle visite, dei buoni affari, delle visite mediche, chissà anche negli incontri d’amore. Al paese si tornava verso mezzogiorno… per quel ritorno, il cocchiere agitava la frusta per incitare a galoppare i suoi cavalli, mentre il ragazzo mazziato, la donna ammalata, il prete grasso, la ragazza educata, il cantiniere di Bitonto erano di nuovo stivati nel dondolante legno. Il più felice di tutti era forse il cantiniere bitontino: sotto il sedile c’era il suo rosso fazzoletto pieno di sarde e alici acquistati a poco prezzo da un ambulante che sicuramente aveva rubato quel pesce a chissà quale pescivendolo.

La Bari-Barletta

Il vecchio campo dell’aviazione era anche circondato da qualche casa bassa, dominava più in là l’alto gasometro che forniva gas alla città e si notavano anche gli alti cipressi del Cimitero.
Da quelle parti scivolava anche il lungo e nero binario delle ferrovie statali che portavano al Nord. La nostra nuova casa, anche se provvisoria, era ariosa specialmente per un’ampia finestra che dava proprio sull’ex campo dell’aviazione. La prima sera fu triste, non c’era illuminazione, l’energia elettrica non era ancora arrivata in quella nuova casa di proprietà di un carrettiere che, con i suoi traini e i suoi cavalli, trasportava merci in città e anche nei paesi vicini. C’era anzi dietro la casa la stalla. Quella prima sera, dunque, in due stanze illuminate da un lume a petrolio e soprattutto immerse nel silenzio. Non udivamo le voci dei clienti del caffè di mio padre, il tintinnio dei bicchieri e delle tazze, lo sbuffare della macchina espresso, lo scrosciare dei rubinetti dell’acqua. La nostra abitazione in via De Rossi era collegata con il caffè e così, anche quando andavamo a letto, ascoltavamo tutti i movimenti del locale. Ora c’era un pesante tacer d’ogni cosa e un flebile lume a petrolio che si spegneva pian piano. Sentivamo però il nitrire dei cavalli e lo sbattere dei loro zoccoli sul terreno; e le voci delle giovani sorelle del padrone-carrettiere che litigavano fra loro. Pian piano s’acquietarono anche questi echi; ma lo stesso non riuscivo a prender sonno. C’era una gran tristezza. Poi all’improvviso sentii il rumor di un treno: chiaro, evidente, le vetture che passavano sui binari, il fischio lungo nella notte. I binari delle Ferrovie dello Stato passavano accanto al Cimitero e quel luogo non era lontano dalla nostra casa provvisoria. Ed erano i rumori di quel treno che ci doveva portare al lontano Nord. Il cuore si aprì di nuovo alla speranza e mi addormentai cullato da quel frastuono che entrava deciso in tutta la casa, faceva tremare i vetri, sbattere la porta; ma mi rendeva facile anche il sonno che sino a quel momento stentava a venire. Il giorno dopo mi svegliai in piena luce, in campagna la luce del giorno appare, anche nelle prime ore del mattino, in tutto il suo splendore. E mentre guardavo la finestra, sentii un altro fischio di treno. Un fischio che in via De Rossi non arrivava certo ma che conoscevo benissimo perché apparteneva ai treni della Bari-Barletta, l’altra ferrovia a scartamento ridotto che era anch’essa nelle abitudini della nostra vita quotidiana. La sua Stazione era in via Napoli, in un edificio quasi monumentale, in continua costruzione e non portato a termine nemmeno nei tempi nostri. Si entrava - almeno così appare nella mia memoria - da un vano ampio dove c’era la biglietteria ed ecco subito all’aperto, in uno spiazzo alberato, un fascio di binari con le vecchie vetture con la berlina panoramica. Dovevano essere belghe – era stata difatti una società belga a dar vita, negli ultimi decenni dell’Ottocento, alla Ferrotranviaria - e i nomi delle città del Belgio apparivano sul frontale della locomotive. Che facevano tanto fumo e quel fumo aveva un buon odore, la mia memoria evoca un odore di forno a legna di vecchie pizzerie. E anche il fischio aveva qualcosa di familiare, non era stridulo, aveva un suono che non dava fastidio, poteva somigliare – ma in maniera smisurata, si capisce - a quel sibilo che fanno le nostre caffettiere casalinghe quando incomincia a uscire il caffè. Nel linguaggio popolare dell’epoca tutta la Bari-Barletta, partendo appunto dalla locomotiva, era indicata come la ciclatera, termine dialettale che sta per caffettiera e che era anche indice delle modeste velocità dei convogli. I quali, quando abbandonavano la Stazione, seguivano il normale rituale ferroviario. Con l’apparizione del capostazione che aveva anche lui un berretto rosso pieno di greche, portava la tromba per dare la partenza ed era nientedimeno nativo della Repubblica di San Marino. Suo nipote, Attilio Alto, che fu rettore dell’Università di Bari e anche di quella di San Marino, mi racconterà - anni e anni dopo - che l’apparizione del nonno era salutato dai viaggiatori con fischi e applausi, alla maniera immortalata poi nei film di Fellini. Al suono della tromba, anzi della trombetta, i treni della Bari-Barletta rispondevano con un lungo fischio e un’esplosione di fumo nero che confermava la raggiunta pressione della caldaia; poi affrontavano un lungo tratto interno per sfociare, da un cancello che veniva chiuso quando non era orario di arrivi e partenze, direttamente sulla statale n. 16, quella che all’inizio, ancora oggi, è via Napoli. La percorrevano a lungo, marciando sullo scartamento ridotto assieme ai pochi autocarri, alle rare macchine, e al grande numero di carrozze e carri e ciclisti i quali, di volata, riuscivano addirittura a battere la velocità del treno. Passava, quel fumoso convoglio, davanti al convento-chiesa dei Carmelitani scalzi che avevano voluto lì la loro casa per essere a poca distanza dal porto. Avevano progetti missionari per l’Africa lontana e il porto era il punto di partenza per i loro viaggi. La Bari-Barletta sfiorava le grandi caserme militari che erano sulla via Napoli, le stalle per i cavalli delle carrozze e dei traini e puntava su Fesca, allora il più lontano rione della città. Fesca aveva una bella spiaggia sulla quale il governo fascista aveva eretto dei grossi palazzi: per ospitare le colonie estive e un collegio per ragazzi difficili. La fermata di Fesca era in piena campagna, accanto vicino ad una casa di campagna ombreggiata da un immenso gelso. Per raggiungere quella zona, il treno lasciava la 16 e si lanciava su un piccolo ponte di ferro costruito sul torrente Lamasinata. Faceva un grande frastuono il convoglio quando imboccava il ponticello; e noi, viaggiatori diretti ai bagni di mare di Fesca, dal belvedere in cui ci asserragliavamo vedevamo il fiumicello sotto di noi, le traversine di ferro, il torrentaccio che si rovesciava nel mare. E quello era il nostro West, e quello era il trenino che attraversava gli immensi deserti con carovane e indiani e cow-boy della nostra fantasia. A Fesca c’era anche una cava di pietra dalla quale era estratto, a cura di una società romana, la Sicam, il materiale lapideo per il nuovo porto di Bari. Per trasportare quei grandi macigni, era stata costruita un’altra piccola ferrovia che raggiungeva il porto percorrendo tutto il litorale. Quel trenino era fatto di tanti carrelli pieni di pietre, sembravano non finire mai e viaggiavano a una velocità senza dubbio minore di quella delle vaporiere che avevamo appena lasciato. Solo alla fine c’era un vagoncino con alcuni posti nei quali sedevano gli operai che dovevano scaricare i pesanti massi per costruire i moli del porto barese. Tutto questo avveniva d’estate, c’era un sole splendente che picchiava sui trenini, sulle nostre teste, sulla lunga camminata che dovevamo fare per raggiungere la spiaggia. E tutto il mondo sembrava pieno di vita, di felicità, la città lontana e lontana l’eco delle vetture traballanti sul binario. Da Fesca, il tracciato della ferrovia lasciava la strada statale e s’internava più scorrevole nel lungo tragitto che portava a Barletta fra immensi campi di ulivi, di mandorli, di carrubi; fra belle cittadine piene di vita, la ciclatera ora finalmente sola, tutta sbuffante, senza essere seguita da traini, carretti, ciclisti: e il macchinista, re della sua strada ferrata, faceva sprigionare tutto il vapore per far sentire il più lontano possibile il fischio della Bari-Barletta di tanti anni fa…

La casa di via Giovanni Jatta che doveva essere solo una tappa prima del grande viaggio per Milano,divenne invece la nostra residenza per molti anni. Fu così che, nel nostro stesso palazzo, stringemmo amicizia con la famiglia del signor Filippo Giancaspro, impiegato nella non lontana Bari-Barletta. Il signor Giancaspro era un uomo pieno di interessi culturali: parlava di politica, di teatro, di religione e naturalmente anche del suo lavoro di ferroviere. Nelle lunghe serate così che trascorrevamo tutti assieme ci parlava delle delicatezze delle musiche pucciniane ma anche del suo lavoro nella ferrovia. Era stato nelle stazioni della Ferrotranviaria a Bitonto e a Barletta e ci raccontava episodi curiosi, contadini che non volevano pagare il biglietto per la moglie, moglie e marito erano una coppia sola, e poi loro avevano dieci figli, Mussolini proteggeva le famiglie numerose e quindi bastava un solo biglietto. Perché pagarne due? Non era giusto. E giù a discutere. Don Filippo poi parlava del ruolo delle Ferrovie secondarie: sostituivano, nel trasporto, lo Stato. Era lo Stato che doveva assicurare i trasporti, in tutte le località; e poiché era inadempiente, ecco le belle Ferrovie secondarie che consentivano il viaggio dai luoghi più lontani di genti e di merci, di idee di consenso e di dissenso. Se uno veniva da una piccola località portava tutta la sua esperienza alla grande città con cui prendeva contatto. Uno scambio di gente e di idee, dunque,le ferrovie secondarie. Anche per la politica dei prezzi bassi, un treno aperto per tutti. E don Filippo era felice nel descrivere le vetture, i paesaggi, i caratteri dei macchinisti, i casellanti che vivevano in caselli solitari. Poi mi guardava e mi diceva: “ Studia, studia. E se ci sarò ancora in ferrovia, quando ti diplomerai, ti farò diventare capostazione”. Già, capostazione, con un berretto rosso in testa, una trombetta in tasca, di ottone giallo, e far partire per terre lontane un convoglio pieno di gente. Era affascinante don Filippo, impiegato della Bari-Barletta, con i suoi discorsi. Lo ascoltavo, pendevo dalle sue labbra e guardavo anche la sua bella figlia, sebbene fosse più grande di me. La notte pensavo a tutti quei discorsi e li accomunavo ai fischi delle Ferrovie dello Stato che correvano non lontane da quella casa di via Giovanni Jatta. Una notte sentii un sibilo diverso, lungo, prolungato, quasi accorato. Come quello che si sentiva nei film americani quando apparivano i lunghi convogli ferroviari di quel lontanissimo Paese. Era un’autentica locomotiva statunitense. Quando gli Alleati giunsero a Bari nel ’43, sulle loro navi portarono anche i loro potenti locomotori e li inserirono nei circuiti ferroviari italiani. Quel fischio prolungato e diverso, cosa nuova nelle nostre cose quotidiane, mi provocò meraviglia e stupore; e anche una stranita gioia e un stupefatto timore, era un suono insolito, segno di qualcosa che cambiava e contemporaneamente immagine di una cultura che quel tempo ci aveva anche trasmesso. Già, era incominciata una nuova civiltà.

Nessun commento:

Posta un commento

Espressioni tipiche e proverbi materani

U FA-T’ D LA NETT LA MA-T-N S V(AE)-T

il lavoro della notte la mattina si vede

(solo in un secondo momento potrà essere evidenziato un lavoro già svolto)

PU SF-L D CAPP-TTE-L S LA ‘NG-GN(AO)’ LA MADONN D LA BRJI-N

per lo sfizio di mantella la indossò per la prima volta nel giorno della Madonna della Bruna - festa patronale del 2 luglio

(pur di soddisfare un desiderio, lo si attua fuori stagione)

VE CCHIO’NN F-ST-N Y M-R-T-CJI-DD

va cercando feste e funerali

(riferito ad un nullafacente)

U TA-N CCHIU’ SSJI-S D L’O-T

ce l’ha più in alto degli altri

(in riferimento al prepotente)

TAND CH TAND NAN Z TAN-G-N

neri con neri non si tingono

(riferito a persone potenti - oppure - che hanno lo stesso carattere)

CIUCC F(AO)TT Y CO-L PE-J

Ciccio fotte e Nicola paga

(c’è chi paga per il godimento degli altri)

DA NA CAPP-TTE-L NAN Z FE-SC ‘N CUAPPJI-DD

da una mantella non si fa un cappello

(per incuria e incapacità a volte non si riesce a mantenere anche una piccola parte dell’intero patrimonio)

BBU-N SI’ TI-J BBU-N SO’ JJ Y STOM-N N’ATA ZZ-CH

buono sei tu buono sono io e stiamoci ancora un po'

(cattiva voglia di lavorare)

SI’ CO-M A SANT L-NCJ-N

sei come San Lincino

(gracile, esile, malaticcio - come S.Lincino, così rappresentato nell’iconografia popolare)

IA-T CO-M A L’ONG-L D DRAT O CUO’RR

è come l’Angelo di dietro al carro

(malriuscito, come l’Angelo di cartapesta che si mette non in bella vista sul carro trionfale del 2 luglio)

IA-T CO-M N SQUAGGHIA-MB-S

è come uno squattrinato

(riferito a persona priva di ogni sostanza)

IA-T CO-M N PA-L-MMJI-DD

è come un colombino

(riferito a persona dai molti capelli bianchi ed elegante nel portamento)

IA-T CO-M N CUALAN-DR(AO)N

è come un passero adulto

(riferito a persona bassa e robusta)

O’ VJI-T U PEST - ha avuto il posto

V(AO)CH ALLA PEST - vado alla posta

O’ VJI-T LA PEST - ha avuto la peste --------------------------------------------------------

M’EGGHIA MANGE’ LA POST - mi devo mangiare la pasta

IE’ SEMP U STESS POST - è sempre lo stesso pasto --------------------------------------------------------

I’ D-V-NTE-T N PUST - è diventato (come) un pesto

AGG-RE-V ATTIRN ALLA PUST - girava intorno alla pista

(particolarità sul significato di uno stesso termine dialettale)

U SAP(AO)R D LA M-NESTR U SE-P LA CH-CCHIE-R

il sapore della minestra lo sa il cucchiaio

(solo chi è dentro, fino in fondo, alle varie situazioni della vita ne conosce esattamente ogni particolare)

DJI-R PINT FINCA FA-C-M U CHINT

duri il punto (cucito) finchè facciamo il conto

(riferito a quanti nel commercio assicurano la garanzia fino al momento del pagamento)

CO-M S MA-T ? CH LA FU-R-C

come si miete ? con le forbici

(testardaggine in una convinzione sbagliata)

MATERA COM'ERA - MATERA COM'E' - MATAR FISCIA FISC

Musica folk

MUSICA FOLK

Canti popolari materani e canzoni "a rambègn" (a dispetto)

Espressioni tipiche e proverbi baresi

Espressioni tipiche

A muzz - A manciate, in quantità non ben definite

A un certo livello - Di classe!

Acchiamind stu panoram!-Guarda questo ben di Dio

Annusce u mmire-Può cortesemente portare un’altra caraffa di vino?

Ascinne dall’elicott:r-Torna con i piedi per terra, non fantasticare

Auand’!-Attento!

Aueee’!-Egregio signore abbia la compiacenza di prestarmi un attimo della sua attenzione (anche al plurale)

Babbione-Persona un po’ dolce di sale

Bell bell!-Non avere fretta!

Ce rimmat’!-Che porcheria!

Ce tip’!-Che personaggio pittoresco!

Cambiare l’acqua alle olive-Andare a fare pipì

Capisci!-(Intercalare molto usato)

Capooo!!-Usato per chiamare il Maitre, il Cameriere, o il Custode

Caricacchiacchiere-Persona dalle molte parole e dai pochi fatti

Citt citt a’ffa la jos!-Per cortesia fate meno baccano!

Ciungomma-Chewing gum

Cund’ue-Non ce ne importa nulla, Ce ne freghiamo

Dia dà nu tuzz’-Se non la smetti mi vedrò costretto a colpirti con una testata

E mò si ttu!-Ed ora sei tu!

Flippato-Momentaneamente o perennemente rincretinito

Gibillero-Baldoria, Caos piacevole

Gocciadavè-Che ti prenda un colpo!

Iapre l’ecchie! Che ad achiute non ge vole nudd’!-(In risposta ad una offesa) Apri gli occhi! Che a chiuderli è molto facile!

Live le man dauppane-Codesta se permette è roba mia!

Megghie a ffart’ na vstut’!-Esclamazione verso chi mangia tanto

Mò!-Adesso

Mooh, e ci è ddo!-Ma guarda che posto carino!

Mò mange!-Eh, stiamo freschi! Eh, campa cavallo..!

P’gghià nu pr’quech-Fare una papera

Piciacchina-Ragazza carina da circuire

Puerc!-Porco!

Rid m’bacce a sta f’lar d’ vttun!-Letteralmente: Ridi in faccia a questa fila di bottoni (sempre che si indossi un 501)

Rifaldo-Imitazione grossolana (riferito a una persona o un prodotto)

Sciacqualattuga-Persona che non vale una lira

Sciampista-Donna molto appariscente dal facile pettegolezzo

Scimmiatore-Gigolò da quattro soldi

Sdreus-Soggetto anomalo, oppure oggetto dalla forma inusuale o storta

Sgamuffa-Imbroglietto da quattro soldi

Si ccapsciut cazz ch fcazz e chigghiun ch llambasciun!-Hai preso lucciole per lanterne!

Si ppropie du iun!-Sei proprio ingenuo ! (il comitato di Napoli iun non c’entra)

Sciamaninne, sciam’!-È’ ora di rimboccarsi le maniche!

Sort d’ chzzalon’!-Dicesi di persona un po’ rustica, quasi ruspante

Sort de perchia!-Che bella ragazza !

Stare alle cozze-Aver alzato un po’ il gomito

Statt’ bbun!-Ciao, arrivederci!

Tacchiisce!!-Gira i tacchi e vattene, Stai alla larga!

Ti dò gusto-La tua idea mi entusiasma

Tufagn-Duro di comprendonio

U curt’ non arriv’ e u frascech’ non ammandene!-Ma non ti va bene niente?

U mee’!!-(Vedi Capoo!) (per richiamare l’attenzione)

Uagliò!-Ragazzo! (anche plurale)

Uè la zamp’!-Versione femminile di Sort de Chzzalon’

Uè sciangat’!-Ehi, tu che zoppichi!

Uè spadriat’!-Ehi tu, apolide!

Una storia di gomma-Una situazione alquanto insolita

Vattinn’ au larg-(Vedi Tacchiisce)

Vattinn’ và!-Ma và, burlone!

Villacchione-Persona poco affidabile

Zite de Cegghie-Zitella (usato anche per definire colui o colei che sono rimasti con un pugno di mosche in mano)

Capo! = Hey, ragazzo!

Cê uè? = Che vuoi?

Cê jié? = Che c'è?

Stattê Cittê! = Stai Zitto!

Ma vattinnê! Va! = Vai via!

Madò = Madonna! esclamazione molto usata per qualsiasi espressione di sorpresa, positiva o negativa. Per aumentarne l'enfasi si prolunga la durata della "a" e della "o" (Maaadooò!!!).

= contrazione di Madò usato come intercalare per qualsiasi espressione di sorpresa, positiva o negativa. Per aumentarne l'enfasi si prolunga la durata della "o" (Mooò!).

Mé/emmé? = forma dialettica di Embè? (Ebbene?)

Mejnê = esclamazione utilizzata per affrettare qualcuno nella conclusione di qualcosa: una traduzione in italiano potrebbe essere: Muoviti, fai in fretta!

Ci/Cê jiorê sò? = Che ore sono?

Mocchê a chi te bbivê! = lett. mannaggia a chi ti è vivo! (frase usata nei più vari contesti per sottolineare un'azione o una frase notevole di taluno)

Auuandê!/ "Auuandê a Peppinê!" = letteralmente: agguanta!(acchiappa)/agguanta a Peppino!(frase usata nello stesso senso dell'espressione italiana "attento!", soprattutto in caso di cadute)

"Sanda Lucie!" = letteralmente: Santa Lucia. Si utilizza quando un oggetto che si sta cercando e non si riesce a trovare lo hai sotto gli occhi

"Ou!" = intercalare caratteristico di chi vuole attirare l'attenzione altrui(Ehi!).

"Naaaa!!!!" oppure "Iiiiiii!!!!" = espressione di sorpresa, incredulità o meraviglia.

"Tzè" = caratteristico suono onomatopeico ottenuto dallo schioccare della lingua sul palato duro durante l'aspirazione(simile a quello tipico per chiamare gli animali).usato anche in altre zone italiane.

"We R'mmat!!!" = italianizzato "ehi rimmato" ossia "rifiuto".Insulto.

"Mamma mè!!!" = mamma mia!!!

"Sì tarat!" = Sei tarato

"We fà?= vuoi cupulare?

Proverbi

Carna triste non la vole u diàue e manghe Criste (La gente cattiva non l'accetta nemmeno Dio)

Ce bedde uè parè u uess pezzidde t'àv'a duè (Se vuoi migliorare, specie nell'aspetto fisico, devi fare molti sacrifici)

Nessciune nasce ambarate (Chiunque ha bisogno di imparare)

Sanda Tarese pagò pe sendì e iì sèndeche ndune (letteralmente: Santa Teresa pagò per sentire e io sento gratis; ossia: è meglio che taci poiché dici cavolate)

'U tavute non tene le palde (La bara non ha tasche; ovvero Una volta morto i soldi non servono).

Nu tuffê do, nu tuffê dà, fing alla finê ngê'la ma fà (Riusciremo con calma)

Ce nge n'am'a scì, sciamaninne, cê non nge 'am'a scì, non nge ne sime scenne! (Se ce ne dobbiamo andare andiamocene, se non ce ne dobbiamo andare non ce ne andiamo). Scioglilingua per provare la "pugliesità" di un soggetto.

'U pulpe se cosce iinda all'àcqua so stesse (Il polpo si cucina nella sua stessa acqua)

Dalle e dalle che se chieche u metalle(Chi la dura la vince)

Si fatte la fegura to! (Hai fatto la tua figura)

Facime la fine de le scarcioffe' (Facciamo la fine dei carciofi)

Avime fatte trende, facimê trendune' (Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno)

Si cadutê da jind'au littê' (Sei caduto da dentro il -lett. "al"- letto)

Passatê u sande passate la feste! (ogni cosa a suo tempo)

Ammandìneme ca t'ammandenghe! (Mantienimi che ti mantengo)

Stame sott'au cìele! (Siamo sotto il -lett. "al"- cielo)(notare come la ìe di cìele diventa, con la e semimuta una "i" allungata)

E iune!.....disse cudde ca cecò l'ècchie a la megghiere' (E uno!...disse quello che cecò un occhio alla moglie)

Mazze e paneddê fàscene le fìgghie bedde; pane senza mazze fasce le fìgghie pazze (Bastone e pane fanno i figli garbati, pane senza bastone rende i figli sgarbati)

U Padreterna da u pane a ci non tene le dìendê! (Il padreterno dà il pane a chi non ha i denti)

Ci tene pane non tene dìende, ci tene dìende non tene pane (ad ognuno manca qualcosa che ha l'altro)

Ci sckute ncìele mbacce le vene (Non sputare in cielo, poiché ti tornerà in faccia)

La cere se strusce e la pregessione nan camine' (Le risorse si consumano, ma il risultato non si vede)

Sciame a scette la sccosce (Andiamo a buttare l'immondizia)[attenzione in frasi rette dal verbo scì a = andare a ed il verbo stà a = stare a non si usa l'infinito ma l'indicativo vedi grammatica del Giovine]

L'àcqquê iè picche e la papêrê nan gallegge' (L'acqua è poca e la papera non galleggia, usato per indicare una qualsiasi intenzione che non può andare avanti per mancanza di possibilità)

Jè bell la pulizie, dcie cudd ca s jrò l mutand all'ammers!!! (È un sollievo essere puliti, disse colui che indossò le mutande al contrario)

U vov discj crnut o ciucc!!! (Il bue disse cornuto all'asino)

Di a dà l schcaf a du a du fin a che non dvendn dispr!!! (Di tiro i ceffoni a due alla volta fino a che non diventano dispari)

Va a pigghj a schcaf l marang p fal dvndà rus!!! (Vai prendere a schiaffi le arance per farle diventare rosse)

A scanjat caz p fcaz e chigghiun p lambashun!!! (Hai scambiato cazzi per focacce e coglioni per lamponi. Hai preso fischi per fiaschi)

U uòmmene da la tèrre vène a la tèrre se ne và. (L’uomo dalla terra viene e alla terra va)

Oggnùne tire l’àcquè a la vìa so. (Ognuno tira l’acqua al suo mulino)

Arrèvate a la quarandìne lasse la fèmmene e ppìgghie la candìne. (Arrivato ai quarant’anni lascia la compagnia delle donne e frequenta quella degli amici)

Le dìscete de la mane non zzò ttutte euàle. (Le dita della mano non sono tutte uguali)

O uòmmene sènza varve e a ffèmmene senza fìgghie, non zi scènne né pe piacère né pe chenzzìgglie. (A giovani inesperti e donne senza figli non andare a chiedere consigli: non hanno esperienza)

Na porte s’achiùte e ccìinde se iàbbrene. (Una porta si chiude e cento se ne aprono)

U cemmerùte e ggamme settìle, non iè iòmmene pe ffà le file. (Il gobbo con gambe sottili non è uomo idoneo per fare figli)

Nessciùne zzèppe iè dritte. (Nessuno zoppo è dritto. (Chi ha difetto fisico ha difetti nell’animo)

Iòmmene pelùse iòmmene ferzzùse. (Uomo peloso uomo forte)

U lènghe iè bbuène a ccògghie fiche, e u curte pe marìte. (L’uomo alto è buono per cogliere fichi, il basso è buono come marito)

U muerte iè muerte, penzame a le vive. (Il morto è morto, ora pensiamo ai vivi)

Ci tratte se mbbratte. (Chi tratta con lo zoppo impara a zoppicare)

Nessciune nasce ambarate. (Nessuno nasce istruito)

Cê non vole fà nu chilometre ne fasce du. (Chi non vuole fare un chilometro ne percorre due)

U sàzie non crede au desciune. (Il sazio non crede all'affamato)

Non si sckut iinde o piatt addò te si strafquate (Non sputare nel piatto da dove hai mangiato a sazietà: usato per chi parla male di qualcosa che gli ha permesso di vivere ad esempio un vecchio posto di lavoro)

Ce Criste vole arroste l'ove (Se Cristo vuole arrostisce le uova; ovvero Se Dio vuole può tutto, perfino arrostire le uova, cosa decisamente impossibile)

Na parole ié picche e due so assai (Una parola è poca e due sono troppe: usato per dire a chi parla troppo, di stare zitto)

"Uè facce da du de novembre!!"(lett.-faccia da due novembre-ovvero faccia estremamente triste o brutta)

"Uè facce da cicche e ciacche!!"(Faccia da schiaffi!!!!)

"Iapre l'ècchie, ca ad achiùde non nge vole nudde!" (Apri gli occhi,perché a chiuderli ci metti poco,ovvero stai attento)

"Megghj nu quindal n'guedd che nu quind n'gul" = (Meglio un quintale sulle spalle che un quinto(200g) nel deretano)

"Na parol d men e rtirete a cast" (corrisponderebbe in italiano a: la parola è d'argento ma il silenzio è d'oro)

BARI COM'ERA - BARI COM'E'

FOLK BARESE

Votaci su Net-Parade.it

Previsioni del tempo